top of page

La letteratura e il dolore. La disamina qualunquista su Pangea.




La questione mi riguarda, purtroppo ammetto. E per una serie di ragioni. Ieri su Pangea è stata pubblicata una critica (critica? pensierino del sabato?) intorno alla letteratura e ad una presunta pornografia del dolore. Una disamina giudicante, irretita, qualunquista; dell'autrice so che ha pubblicato alcune poesie. Sul valore non saprei dirvi, non le ho mai lette, non immaginavo fosse una poetessa, ricordo solo i like o i cuoricini ai post di Davide Brullo, direttore della rivista Pangea. Poi è diventata una poetessa. Ad ogni modo l'accusa è generica, ovvero: l'editoria predilige questo piagnisteo, una sorta di dolorismo, non il dolore, anzi il dolore per il semplice fatto di essere esposto diventa un vizio, un male, deprecabile, pornografia. L'autrice del testo non circostanzia l'accusa con esempi concreti, se ne guarda bene. Lancia il sasso e nasconde la mano.

Non molto coraggioso, a guardare da fuori. Articoli del genere pretendono una certa dose di sfacciataggine e sì coraggio, altrimenti non hanno senso, si riducono al livello del "signora mia" o al mormorio delle comari di un paese che ingenerano sospetto e maldicenza. L'autrice sostiene che la narrativa contemporanea è guastata dalla pochezza di romanzi in cui il dolore sarebbe spettacolarizzato tout court, poi procede per citazioni e alcuni personalismi del tipo lei sdraiata sul divano forse sofferente per non so cosa, ma lì mi sono persa la contingenza con l'argomento. Ecco ritengo che "pezzi" come questo un quotidiano non li pubblicherebbe mai, una qualsiasi rivista nemmeno, perché manca la seconda parte della disamina, la controparte anzi, destinataria dell'accusa. Non sappiamo a chi si rivolga costei. "Costei" salva soltanto alcuni scrittori del passato, in quanto morti non verranno ad obiettare nulla, ne siamo convinti, non la chiamerebbero a rispondere di alcune presunzioni.

Ad esempio: chi lo dice che chi espone il proprio dolore sia peggiore di chi non lo faccia? Da chi è dettato il buongusto (borghesissimo alla signora mia), la gerarchia? Sei uno scrittore comunque, se scegli di esporlo o non esporlo. Non lo sei comunque se scegli di esporlo o non esporlo. L'ovvietà è che l'arte nasce da una ferita. Ma oramai la buttiamo in caciara e i sodali della teoria di cui sopra sarebbero invitati a nozze e a sghignazzare. Cose come la poesia del dolore, o il cineasta che gira e rigira lo stesso film, l'ossessione, la spada conficcata nel costato, secondo la teoria esposta su Pangea, allo stato dei fatti, detonerebbero drammaticamente come un solenne rutto. Tutti possono scrivere, discettare, più o meno coraggiosamente, a questo punto assurgerebbero al medesimo valore anche certe recensioni sulle varie piattaforme dei signor nessuno. Tutto vale, tutto è giusto, tutto diventa pensiero critico.

La pornografia attiene alla volgarità di chi riesce a giudicare il dolore altrui, riesce ad entravi a gamba tesa, con la modestia delle proprie capacità empatiche o di opportunità, lascerei perdere parolone come competenze o un qualche talento confinante. La questione mi riguarda perché io non faccio altro che esporre il dolore, così sono sopravvissuta, così ho scritto. Ho esposto il dolore, senza riguardo, senza bon ton forse, l'ho trasformato, sono diventati i miei libri. Una comunicazione incessante con una misteriosa seconda persona, soltanto oggi capisco che in tutta la mia vita in fondo non ho fatto altro che pregare. Ho esposto il dolore un minuto dopo la morte di Matteo, la violenza dell'accadimento risuonava talmente forte che (era un feto che si dibatte per non essere abortito) riversava irreparabilmente oltre gli argini della buona educazione. L'ho fatto qui, pubblicamente, piangendo e davvero ignorando il pubblico di lettori casomai. Atteggiamento irresponsabile? Non saprei. Giudicare il dolore, le modalità con cui attraversarlo, o come la coraggiosissima autrice di Pangea, umiliarlo, deprezzarlo, ridurlo alla pochezza di un mormorio calunnioso, è un'operazione che mi stordisce per l'esasperata miseria che vi leggo. Miseria di empatia, appunto, e opportunità. La coraggiosa autrice di Pangea dovrebbe dare il meglio di se concludendo la sua articolata analisi citando esempi concreti. Conosco poetesse che hanno scritto con il sangue, non trapassate, presenti, contemporanee: una su tutte, Ilaria Palomba. Ma anche quando Ilaria Palomba avesse deciso di non esporre il proprio dolore, sarebbe la meravigliosa poetessa che è. Lo sarebbe comunque. E il dolore comunque l'attraverserebbe, il lucernario in cui confliggerebbero le illuminazioni che il dolore, in stato di grazia, restituisce. Proprio l'autrice di questa disamina su Pangea, ricordo bene, nei giorni in cui era appena morto Matteo, scriveva un post in cui condannava (vi lessi sarcasmo persino) chi usava il dolore e la morte per guadagnare un pubblico di adoranti. Ricordo quel post (uno screenshot di un mio lettore), mi restò impresso, proprio perché c'era la curiosa concomitanza del dolore incessante che mi opprimeva, la morte, il lutto, e il post di costei, poi mi riferirono, cancellato. Me la sono ritrovata ieri in una disamina che reputo qualunquista, accuse lanciate al mondo, un ordine morale impartito da questa signora che pubblica poesie da qualche tempo.

Era inevitabile cascare nella trappola di dare importanza a articoli del genere. Intorno ho letto alcune compiacenze. La questione comunque l'avrei voluta affrontare, proposta in altri termini, giorni fa, anche dallo scrittore Michele Vaccari.

Post recenti

Mostra tutti
Fame.

I miei disturbi alimentari esordiscono ufficialmente a 18 anni, mentre studiavo per gli esami della maturità. Si presentarono con una...

 
 
 

Commenti


bottom of page