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L'ultima estate (Il Fatto Quotidiano)

L’ultima estate di una vita - che somiglia sempre meglio alle quattro albe (nel senso risolutivo dell’eventuale dissidio, l’alba consolatoria) del giovane sognatore di Pietroburgo, ne Le notti bianche di Dostoevskij - risale al secolo scorso. La mia ultima estate. Fu la fuga estetica nel congedo, la negazione della vita gravosa nel privilegio di una studentessa di liceo; ero felice senza sapere che presto il mio destino acerbo mi avrebbe trasformato in una prefica. Nel mio destino si sarebbe raccolta una risacca anomala, il resto sulla vita. Non so, rivoli di poco conto, il molto poco, assunto in una posa involontaria. Una funzione civile, confinata nelle periferie, estranea, indolente. Un sacrificio che ufficialmente non mi era stato nemmeno proposto. Estrazione medio borghese. L’ultima estate frequentavo le feste private, ville patrizie, sentieri di pietra bianca, simile alla polvere delle mulattiere dell’entroterra. Pinete. Oleandri fioriti. Agavi ciclopiche che levavano in alto le foglie fibrose alla stregua di braccia convulse, in una preghiera rattrappita e protesa verso il firmamento. La notte aveva di solito, d’estate, un profumo speciale, era il gelsomino selvatico credo, lo chiamano gelsomino indiano. Gli uomini adulti preferivano le ragazzine, sul bordo piscina di qualche albergo esclusivo, con le terrazze sul mare cobalto, il mare che finiva in Africa. Allora non era ancora il cimitero del canale, il nostro gergo non prevedeva etimi sospetti come: barconi, sbarchi, scafisti. Non conoscevamo quelle parole. Al massimo, la più esotica delle suggestioni era l’inglesismo “house”, come la musica sulle consolle, le feste free, alcoliche, con una demarcazione persino semplice di droghe conformi e un paio di inferni: l’eroina e la cocaina. Separazione classista. La cocaina era solo per gli smidollati con la Porsche del padre. D’estate devono accadere le cose migliori, quelle che finiscono presto. Un tizio, ex militare, uno sportivo, lui per esempio, morì per overdose. Qualcosa che finisce presto, sì? Come la morte che sopraggiunge?

I miei amici si “facevano” tutti, più o meno, non erano amici; erano tradotte umane verso una qualche specie di fallimento; sono la sacerdotessa dei legni storti tutto sommato; i compagni di classe erano soggetti troppo noiosi per noi ragazze, che avevano dalla loro la bellezza (la bellezza d’asino) e una superbia fragilissima. Era l’ultimo anno di liceo, era l’anno della maturità. Sembra possibile ogni futuro in una stagione della vita, dovremmo bendarla, seppellirla, per non smarrirne la futilità e la vaghezza delle illusioni, le perfette illusioni da cui tirar su qualcosa, la cresta sull’avvenire. La stagione si chiama: giovinezza. L’avvenire non era mai avvenire, sperimentava un presente continuo, assordante, come la musica house in consolle, lo stesso martellante suono, un’eternità recalcitrante, e il futuro potevi stagliarlo prima di dormire, senza temere, sarebbe diventato l’azzardo, l’amore, un’avventura dove io ero sempre più bella e sicura di me. D’estate si leggono i romanzi che ti formano, c’è una canzone in particolare. Leggevo la Sagan, la passione di Lucille e Antoine. O ero Geneviève, la donna del romanzo di Christiane Rochefort, Il riposo del guerriero. La fascetta in copertina recitava: “il romanzo che ha fatto arrossire la signora De Gaulle”. Potevo immaginare un destino così disinibito? E cosa sarei diventata? E l’università e le gonne a fiori e la leggerezza, la mia stanza da universitaria? Ma non accadde, no. La mia canzone era un brano dei The Smiths, Please please please let me get what i want. L’avvenire fu simile a un lutto, le estati agonizzanti, estese come steppe. La periferia del mezzogiorno è simile alla morte. Il suono disarmonico degli ambulanti e dell’ignoranza ha una volgarità primitiva. Il sole cocente su certe rene trafitte da gigli selvatici, in Sicilia, è un lutto segreto.

Persino il cielo infiammato di un azzurro clemente, è talmente azzurro che la sua misericordia diventa nera. Lo diceva un amico pittore di Bellano, molti anni dopo, Velasco Vitali. Aveva sorpreso una terra afflitta dai suoi stesso colori, sotto le aure di una cattedrale, i basamenti di un agone greco. Cosa sarei diventata? Erano case franate, le urla, le tende che si gonfiavano ai piani, il sole bianco di agosto, la polvere che rincorreva brevi e ripetitivi gorghi, fino a congiungersi in vortici imprecisi, le motorette rumorose, il gergo della diseducazione, l'assenza di gentilezza, un monito arcaico. Una stagione, l’estate come la giovinezza, erano i cardi verso la roccia, i canaloni di fogna che insultavano il mare, contagiando ogni possibilità di turgore malato, come il mio viso opaco. Gli altri erano tossici, muliebri. Le siringhe conficcate sulle crepe dei muri. Androni bui. Bacheche frantumate. "Bastardi" sulla saracinesca di un box. Era l'eroina, i suoi frequentatori. Fine anni '80. Le feste patronali. I cantanti neomelodici. Le estati. Io ero un 'adolescente.


L'originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione cartacea venerdì 11 luglio 2025

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