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Fame.

I miei disturbi alimentari esordiscono ufficialmente a 18 anni, mentre studiavo per gli esami della maturità. Si presentarono con una fortissima diffidenza nei confronti del nutrimento, di ogni alimento. Un sospetto che mi impediva di lasciarmi andare, nutrirmi, procurarmi una gratificazione nel farlo. Fu l'inizio di un disagio enorme, che si accompagnava ad altro a monte, una croce, definitiva. So che me la porterò d'appresso fino alla morte. E' invalidante, ti rende la vita un'ostilità, non un'opportunità, piuttosto un castigo, una strada molesta. E lo sarà fino alla fine. Malgrado abbia erroneamente individuato altre croci, poste a mezzo, la più pesante è la matrice, seguita dal disturbo a metà tra psichiatria e affettività, che poi si equivalgono a mio modesto avviso. Sono stata una bambina non guardata, non curata. Il mio vagito non fu l'esito di una attesa desiderata. Sono arrivata d'inciampo. Le figure femminili nella mia vita, salvo la nonna paterna, sono figure abusanti o nella migliore delle ipotesi assenti, distaccate. Una di queste continua a detestarmi, come ha sempre fatto, fin da quando avevo pochi anni, vessarmi, provocarmi, insultarmi. In generale la mia presenza era ragione di insulti, vessazioni, che continuano in altre forme ancora oggi. Non so se il disturbo si sia nutrito di queste violenze emotive, ferite non guaribili. Non conosco carezze, abbracci, baci, dalla matrice-nutrice, né dall'altra figura femminile, nei cui occhi ho visto perlopiù brevi fessure opache di odio. Ad ogni modo penso che un tale pregresso mi abbia sostenuto nel rovinarmi la vita in seguito, posto che il disturbo non siamo noi né a cagionarlo né a perfezionarlo.



A 18 anni non ero più la ragazza brillante, bella e forte, di appena un anno prima. La natura mi aveva aiutato ad esserlo, malgrado la trascuratezza in cui avevo vissuto, tra l'infanzia e l'adolescenza, una trascuratezza pratica ed affettiva. L'anno prima, in quarta liceo, avevo iniziato a frequentare un tossico, di sei anni più grande. Un eroinomane che aveva tentato il suicidio con un grammo di roba. Lo avevano salvato, ma la storia era finita sulle pagine del maggiore quotidiano della Sicilia. Un vero e proprio sputtanamento. Il tipo era una specie di lebbroso, indicato per la via, escluso dalla socialità. Un malato. Un morto. Io ero un delicato fiore. Avevo molto, la bellezza, la salute, l'intelligenza, amici, corteggiatori, gente disposta a fare qualsiasi cosa per uscire con me. Mollai tutto, e mi infilzai in questo orrore. Cominciai a frequentare un morto vivente. Un vampiro. Mentre lui si salvava, attraverso la mia persona, io piano piano mi consumavo. Arrivai a pesare 42, 43 kg. Non frequentavo scuola regolarmente, perché la mattina spesso andavo al Sert con il tipo. Al sert in attesa c'erano zombie eroinomani, altri morti parlanti. A rota. Malati di Aids, quando l'Aids era la peste non indagabile e di Aids si moriva. Non potevo studiare con la medesima lucidità o leggerezza delle altre compagne. Mi avevano comunque abbandonata, le compagne, gli ammiratori di un tempo. Le solite figure femminili prossime perché consanguinee, matrici e nutrici, non smettevano ovviamente il loro ruolo: a volte vessatorio, quando andava bene assolutamente indifferente al mio destino. Ho attraversato le solitudini estreme. Le illazioni, lo sguardo morboso e ilare delle coetanee perché nel frattempo ero una copia pallida e caricaturale della ragazza gioiosa e in salute di appena un anno prima. Durò sette anni, il tragitto verso il Golgota. Sette anni biblici. Il disturbo alimentare era lì, dentro e fuori di me. Non è identificabile con niente, con altri esempi. Ognuno ha la sua "non ragione". Ma la sofferenza non comunicabile è la medesima.

In piazza, il luogo in cui ci si riuniva tutti, ero la negletta oramai. Un'eroinomane o forse una malata di Aids. In quegli anni era una tagliola sulla testa. Non mi avrebbero perdonato l'errore. Non ero un'eroinomane, non ero malata. Dio mi ha salvaguardato sempre, incredibilmente. Eppure per tutti lo ero. Non mi nutrivo semplicemente, combattevo guerre segrete; legioni di fobie. Un martirio se vogliamo, blando non saprei. Dipende. Non sono riuscita mai più a tornare forte e spensierata, non sono riuscita mai più a nutrirmi con serenità. Ancora oggi ho enormi difficoltà a farlo, e chi mi frequenta e non mi conosce bene, deve imparare subito a ignorare certe stranezze, stranezze soltanto all'apparenza, perché se ne sconosce i recessi. Mi si deve amare molto per tollerare questo di me. Dal 2010 al 2020 il disturbo si è ripresentato pubblicamente e con più vigore stavolta prendendo in prestito la forma dei dolori cronici di cui ho sofferto nel periodo in questione, ma non sono andati via del tutto. In questi dieci anni hanno provato ad aiutarmi costringendomi ad assumere psicofarmaci. L'ho fatto per un po', totalmente abbandonata a me stessa, fino a quando una crisi aritmica molto forte mi ha indotto a cestinare la mondezza che assumevo. Tutto sommato non saprei cosa spiegare, il resoconto, breve sommario, sulle stagioni della mia vita, non è altro che un sentiero di rovi.

Il post lo dedico a Francesca, nella sorellanza delle nostre solitudini.

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