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La salvezza - L'ultima parola

Mi sveglio la mattina sorprendendo il mormorio a fior di labbra, ha smesso di essere una preghiera. Vorrei che piovesse per sempre, il sole timido del mattino inforca il quadrilatero che si sporge tra il davanzale e il salice e la tenda blu ricamata, simile a una palpebra stanca e curiosa e nondimeno incessante sul lungofiume che è la mia vita, dopo l'assenza. La mia vita finisce nel quadrilatero di luce vischiosa, bluette, lo rimiro, indifferente. Finisce come un chiodo o come la croce che saetta sopra l'armadio, su per i pannelli. Un lungo fiume a indicare passi algidi inseguiti uno avanti l'altro, insicura e prossima a cadere. Ma io cado per poi tornare diritta, nel baricentro che ben conosco, sembra un vaniloquio, il ridondante ruscello che mi ricorda le stesse sciagure. Eccomi, lo stridore di denti, Siracide, l'uomo giusto, il crogiolo del dolore. Il passato è il solo presente che mi accompagna, vecchi amici, tutti morti. Lui. Il grande assente. Era l'amore o è il Crocifisso che mi si sgrana davanti, granulo di giaculatorie che non voglio recitare. La sconnessione. E adesso chi sono. La salvezza, la salvezza. Ho chiuso la porta e sono andata. Il ballatoio era accecato dai raggi che rovesciavano dalla valle precipitata giù alle cascate e fino al pendio nella conca. Il paese incassato tra i monti. La memoria serve a nutrire i giorni che verranno, non è abbastanza provata o stremata per risorgere come so fare molto bene da sola nel mio baricentro, dove inchiodare la vita e la vita la chiamo, stoltamente, sciagura.

Sono giorni insensati, e mi dico sia la solita fase, lo stridore di denti, ricordi Siracide? E Johannes. Eri così giovane, quando leggevate il saggio, aspettavate il giardino fiorito. Anzi, lui diceva: fiorirà il deserto. E io ci credevo, mi dico.

Fiorirà il deserto. Può mai fiorire un deserto? L'ultimo amore della mia vita avrebbe demolito ogni resistenza. Ora che sai di essere stata amata fino alla morte, mi dico. Solo che la morte ha l'ultima parola qui e ogni conversazione o struggimento diventa un ponte con le cose del cielo. E io non conosco le cose del cielo e come si diventi oltre la porta. Da quando lui è morto penso spesso al ponte, il viaggio oltre la nostra frequenza, un linguaggio neonato in cui ritroveremo le istanze perdute. In quale forma? E la sottrazione del presente, la sottrazione di quel che pleonasticamente autoaffermavo come mio non riuscivo a collocare in una postazione consona.

La salvezza succedeva attraverso la morte e io ero forse la sirena, lo psicopompo ignaro. Non riesco a mantenere desto il ricordo, la cornice dentro cui si sono svolti i fatti. Dieci mesi convulsi e stranieri, adesso penso che non sono certa siano appartenuti a questa frequenza. Noi siamo per il cielo. Siamo fatti per andare oltre. L'oltre.

La morte nella tua vita diventa lutto e spegne le lucine, come prima di dormire. Spegnile tutte. Ti svegli nel mezzo della notte e con una certa paura non riconosci i luoghi. Sei al buio. Spegnile tutte. Le lucine sono i miei moti dello spirito o come definirli? Sono i sentimenti, l'adrenalina, una certa emotività. Spegni le lucine.

Non trovo il coraggio di fermarmi, fissare il quadro, la cornice con dentro un paesaggio dipinto e ferito. Una spatola che urta la tela. I monti, il ruscello, il verde sulle cime e la Croce. E i suoi occhi enormi come il Cristo che non smetto di fissare seduta al Tempio. Il Cristo della Misericordia.

Per essere bravi e combattenti bisogna restare. Talvolta si resta perché non si può fare altro. Restare, frastornati, la città e i suoi fastidi ti evocano forme di dinamismo, la luce del mezzogiorno è un eguale fastidio. Gli altri, l'interferenza dei giorni con gli altri. Non so cosa significhi. Interferire nella vita è una piana nebulosa come la quinta di un sogno di cui non ricordi gli abitanti, dimoranti con facce senza connotati.

Sguarnita di ogni espediente, la finzione o l'illusione, credo di vivere all'incirca, vivere ufficialmente perché non mi si debba accusare di non saperlo fare meglio, mentire ostinatamente. Resti in piedi quindi sei viva. Così sia. Aprire le palpebre e chiuderle all'oscurità, in segreto aspettare che sia l'ultima notte anche per te. Non trovando altra possibilità per trasformare il mormorio in un sussulto. Vorresti che il sole sparisse, la terra, o il cielo si tingesse di un grigio trapassato. E tacesse il frastuono, rimanesse vigile l'unica preghiera e il Padre ti parlasse così nitidamente da poterlo udire. Lui ti conosce, bestia braccata.


© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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