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La salvezza - Il soldato morto.

Appena sveglia, all'alba, richiudo gli occhi e temo il giorno che si annuncia. Mi sorprende il dolore che conosco, penso che, girate le sette chiese, non ho più a chi confidarlo. C'è una comunità di suore, a qualche chilometro, su un promontorio aspro e duro che guarda verso l'azzurro, cielo, orizzonte, al di sotto il mare si stropiccia e diventa un turbine grigiastro e nebuloso d'inverno, o si avvita in flutti brevi, nervosi e bianchi se è tornata la primavera. Potrei recarmi dalle suore e piangere inginocchiata in sacrestia dal prete o davanti la tunica nera della sorella che mi raccontava di San Giuda Taddeo nel refettorio dinanzi alla minestra sul desco e alla legna fragrante del camino. Ero la vedova di Isaia. Uno strano inverno allora. E allora già piangevo, ma era un pianto diverso, di un abbandono che era una morte ancora, ma diversa. Una morte con insita la speranza, non una morte e basta. Non posso tornare dalle suorine. Sono tornata sempre, sono tornata piangendo, tutte le volte. Non è normale. Non ho giustificazioni o crediti da giocarmi, stavolta, non è possibile una vita per intero puntellata da continue minute tragedie, continue elefantiache sventure.

Torno di nuovo, con un soldato morto? Morto morto. Come nella ballata di Brecht e Grosz ne illustrava i contorni, parodistici o ineluttabili. Parodistici perché c'è una donna svestita, non sono io, e il soldato morto, che è carne oramai e Brecht scrive in putredine, perciò sul tronco rigido penzola un turibolo.

Il soldato è morto. L'alba si annuncia. Il dolore è una contrazione al ventre, non voglio mettere i piedi giù dal letto. È già accaduto. Ritorna tutto. È una malattia? O è la vita così specialmente tragica e ripetitiva su talune cadute. Non ho fatto altro. Cosa dovrei dire alle suore? La sorella che mi parlava di San Giuda Taddeo sarà morta. Era inverno, era freddo, era gennaio. Stringevo le mani della suorina e gli occhi; e il pianto precipitava come dalla cuna sorgiva che prepara una via misteriosa. Io non conoscevo la via. Un giorno di mille anni fa, piangevo di un'altra morte. Il bambino frequentava la scuola materna, lo aspettavo nell'ora del terrore, le tredici, le tredici rintoccano in una città del mezzogiorno, sono il terrore, una apocalisse apocrifa, mascherata, che scivola sulle facciate raspose dei palazzi anonimi e crudelmente banali, borghesi, di una borghesità annoiata e inasprita dalla pochezza di argomenti, attraverso cui elevarsi sulla volgarità taurina, volgarità da ceto medio. Essa stessa volgare con ambizioni da talk show del pomeriggio, da cronaca fasulla, qualcosa da tv commerciale. E dunque è il terrore, il silenzio ignorante. Per me era tutto ciò, avevo davvero perso tutto, in realtà dovevo perdere di nuovo, reiteratamente, fino al soldato morto di Brecht.

E siccome non c'erano speranze
Di pace dopo cinque primavere
Il soldato tirò le conseguenze:
Da eroe volle morire.

Lo avevo già scritto da qualche parte, il soldato morto, le nudità mostruose di Grosz, faccendieri, portaborse, capitani d'industria, borghesi dal pallore malato, tristemente noti benpensanti. Noti nell'ordine comune delle quisquilie. Io pativo. La mia contrizione è vergognosa. È una malattia? Perché qualcuno potrebbe avanzare proposte legittime, ad esempio: tutte a te?

In strada, il bitume per un tratto era appena sollevato, meschino come ogni particolare del luogo che geograficamente sembrava opprimere il mio spirito. Il mio sguardo fissava l'asfalto, vidi un piccolo foglio, qualcosa da ciclostile, lessi: Io sono la Via, la Verità, la Vita.

Incontravo i segni e, quando incontravo i segni, piangevo. Ho pianto troppo, me ne vergogno, tolto il giro delle sette chiese, sono la donnetta patetica, afflitta da una personalità svagata, destinata alla privazione. Non leggo sventure nobili, o in una seconda lettura non mi avvalgo di una facoltà superiore che ripone la mia piccola esistenza, un folto di balbuzie o eloquenze ripugnanti, dentro parentesi ascetiche e in edicolette decorate di "purtuttavia" o "se", affinché venisse perdonato quel che avrebbe con ogni probabilità guadagnato un'alzata di spalle previdente o un mormorio di commiserazione spetrato di malvagità più esigenti.

Il soldato morto mi amava. Devi dare un nome alle cose, suggerisco genericamente a un pubblico di astanti invisibili: Suicidio.

Ma io avevo già perso tutto. Come posso spiegare alla suorina che ho perso una seconda volta, o forse una terza, ma è questa quella che conta, ho perso tutto con la morte vera. E in sostanza dovrei distinguere anche la decisiva differenza che intercorre tra una morte qualsiasi e una morte. I giorni prima della morte, di lui non sapevo molto, era a casa nei boschi di Ciciliano? Sarebbe tornato, come un soldato dal fronte. Lui amava i fiori.

Mi sono sdraiata sul divano rosso, ho chiuso gli occhi.

Quando perdo qualcuno, sono distesa sul letto, non lo so ancora, sono morta anzitempo, li annuncio, li prevedo.

Chiusi gli occhi, mi penetrava, similmente al lento scorrere di un fiume nero, la tristezza, la più profonda e chiaroveggente. Mentre lui non c'era.

Lui era morto.

Con una corda al collo, cantava Fabrizio De André.

© Veronica Tomassini



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