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Vodka Siberiana -

Soffiava un vento caldo tale da incutere spavento.  Annunciava una disfatta, eppure dovevi riflettere su qualcosa di prossimo, non potevi fermarti. Eri ormai troppo avanti o compromessa, non ti riconoscevi più. Eri una donna imperfetta, tuttavia stavi ingenerando una nuova identità, eri spaventata, per quel vento caldo, per il segreto che non avresti potuto più nascondere, questione di settimane. Eri una donna immatura, fobica, incespicante, i tuoi balbettii erano leziosi.

Eri una donna meschina e irritante, la tua stupida lotta di classe non aveva nemmeno una ragione politica o peggio la motivazione di una coscienza, non borghese, una coscienza civile. Perché tu odiavi il ceto borghese, e per questo leggevi Orwell o Moravia, soprattutto Moravia.

Il siberiano ti avrebbe comprato la lampada azzurra. Te lo aveva promesso, andava al semaforo, raccoglieva l’equivalente, faceva una rapina, faceva qualcosa. E rise, allora, i suoi denti d’oro brillarono, i pochi denti, i capelli bruni rilucenti sotto la magnolia, la camicia aperta sul costato bianco, magro. Tremava di una misteriosa energia, della vita impenetrabile, ti parve allora non averla mai incontrata fino a un giorno. Un giorno di marzo. Hai veduto un uomo mendicare al semaforo. Era ubriaco. Era bruno di capelli.

Chiese anche a te. “Poco spicci, per favore”.

Notasti subito i denti brillare, la sua voce rauca, il sorriso sprezzante che spogliava la tua persona di ogni ridicolo pudore, estinguendo in un battito di ciglia la dignità accettata come consona rispettabilità borghese, restituendoti una giovanetta indecente, bisognosa di tutto.

La tua mano tremava mentre posavi sul suo palmo una manciata di monete. Hai visto la sua mano, era molto piccola, era sporca, gonfia, ferita. Chiuse la mano sulle monete. Era un uomo molto alto.  I suoi capelli erano colore dell’ambra nel Baltico, d’inverno.

Era un cherubino.

Così racconti la tua vita straordinaria, oggi, a un interlocutore immaginario. Credetemi – vorresti salire sul predellino di un proscenio universale perché ti ascoltasse l’umanità intera.

Era una rivoluzione, vorresti urlare. Oppure: era una guerra. L’ho combattuta, vorresti batterti il petto.

L’ho persa. Vorresti mormorare.

Invece taci al mondo. Ti adegui al pusillanime tedio dei giorni che finiscono presto, prestissimo.

Eri seduta sulla panca. Il siberiano in piedi ti promise la lampada azzurra. Ondeggiava. Si guardava intorno, rideva. Parlava al suo nemico dirimpettaio, un fantasma. Poi tornava a guardare te. Inciampava nella lingua lontana che raccontava le infinite solitudini, dove ti eri riparata.

Più in là i russi, i nuovi arrivati, cianciavano da ubriachi, uno era aitante e gesticolava – blaterava – : “Sono il figlio di un dirigente del Politburo, il signor Ceniek!”. E fu una gran caciara.

La rissa. Il siberiano con la camicia strappata. Gli indigeni che berciavano nel dialetto primitivo. L’upupa sulla tua testa, sul ramo del salice.

E la tua lampada azzurra?

Davvero credevi che durasse per sempre?

Stavi attraversando la strada febbricitante, è mai esistito tutto sul serio? La strada febbricitante. Bruciava, come la fiamma degli impuri, pietosi soggetti depositari di stoltezza.

Sai come ti attraversò la stoltezza degli altri, gli impuri, sodali di correità? Ti attraversò similmente a un sussurro bianco, indecifrabile, sembrava indulgenza.

Non sapresti chiamarla che indulgenza.

Il siberiano aveva la camicia strappata. Era davanti a te. Lurido. Il sangue gli colava dai denti, con il dorso della mano asciugava i rivoli dalle narici.

Questo orrore poteva pietrificare il buongusto, non te. Il bambino lurido tornava a casa. Ed eri tu, misera e incespicante, l’unica che in quel tempo riconoscesse.

Eri la casa dell’empio.

Era pietoso convenirne, non pensi?

Un personaggio di Hlasko non riconosceva alcun viso, era fradicio, e ogni soggetto, ogni creatura, gli sembrava lontana.

“Mai visti prima, morti”.

Scriveva Hlasko.


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Copyright © Veronica Tomassini

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