Slawomir. La mia ribalta.
- veronicatomassini9
- 1 feb
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“Alle cinque la gente per bene beve vodka pura, etichetta rosa, all’Osteria dell’Aquila” (Marek Hlasko, L’Ottavo giorno della settimana)
Mio padre adottivo era un alcolizzato, poteva permettersi di bere. Aveva l’ingrosso più grande del paese e ogni occasione era buona per scolarsi una bottiglia di Zytniowka con i suoi operai. Apparteneva alla vecchia guardia, generazione di lavoratori, onestà, lavoro e rigore. O così credevo. Aveva undici fratelli e due sorelle. Erano un clan. Veniva da una famiglia poverissima, ma alla fine ha conquistato tutto, fama, rispetto, soldi, tutto quel che un uomo può desiderare.
Da qui comincia la discesa del bambino, cioè io, Slawomir.
Avevo capito, quel bambino aveva capito, che dopo la punizione, il pupazzo, Balwana, davanti la casa del dirigente di partito, non potevo più permettermi altre stronzate. Mi costavano troppo. Io volevo la mia ribalta. Non volevo essere prigioniero, mai più. Volevo uscire nel cortile, sdraiarmi sulla neve che si trasformava in prato in primavera e guardare il cielo, le costellazioni, la luna con il resto delle stelle.
Per quel bambino era un momento splendido, magico, indimenticabile.
Quel bambino ero io. Slawomir.
Volevo prendere tra le mani, staccarlo dal cosmo, quell’oggetto luminoso e capire perché fosse così lontano da me. Anni dopo ho scoperto che un altro bambino aveva la mia stessa passione. Era nato il 30 giugno 1918 a Val d’Ajol, si chiamava Pier Duval, o meglio Aimé Duval. Il caro Lucien, il prete basco, il gesuita, l’alcolizzato convertito. Il libro. Ricordi? Lo hai letto. Te l’ho regalato io.
Hai letto quel libro, molti anni dopo. Eri già un alcolizzato. Lo hai letto durante il lungo periodo di disintossicazione in una clinica per alcolisti. Avevi 28 anni.
Quel bambino cresceva. Slawomir dava un sacco di problemi.
Mio nonno nel 1980 passò a miglior vita. Il mio nonno paterno adottivo. Aveva lasciato mia nonna, per una più giovane di ventisei anni. Una vacca. Credo che nessun bambino abbia mai visto tante bizzarrie in un funerale, quante ne vidi io al suo.
C’erano due famiglie. Una da una parte, una dall’altra. Potevano ammazzarsi a colpi di spranga, usando la vanga del becchino. La famiglia di mio padre era più numerosa e preparata all’eventualità.
La famiglia di mio padre era un clan. Uniti, composti, non ho visto una piega nei loro volti. In loro tutto era potere. Dominio.
I miei problemi cominciarono dopo il funerale. Mio padre beveva e sfogava la sua aggressività su di me. Non riuscivo a capire perché dovesse odiarmi tanto.
Mi picchiava, con la cinta dei pantaloni, dovevo coprirmi le braccia se era estate, e le gambe, ferite, doloranti.
Mi piaceva raccogliere i funghi la mattina. Andavo nel bosco.
Puoi chiamarla felicità, Slawomir.
Andavo nei boschi, imparai a usare le armi allora. A sparare con il fucile. Sono finito in ospedale con la spalla fuoriuscita, a causa del rinculo. Ho imparato ad usare le armi.
Non mi piaceva quello che faceva mio padre. Cominciai a notare delle irregolarità nel suo commercio all’ingrosso. Succedevano cose fuori dalla normalità, cose che un bambino non dovrebbe vedere.
Slawomir, Poznan, 1995
C’erano camion in fila carichi di casse di vodka costretti a pagare un dazio non regolare. Altrimenti andavano distrutte, nessun problema, tanto tutto andava in carico del monopolio dello stato.
Non mi faceva piacere vedere quelle cose, lo credevo onesto, credevo che mio padre lo fosse. Non era il massimo per un bambino vedere il padre trafficare in imbrogli solo per avere qualche soldo in tasca e offrire da bere agli operai.
Da quel che mi ricordo, mio padre non possedeva un portafoglio, teneva le banconote nelle tasche, banconote stropicciate, mai visti tanti soldi. Una roba impressionante. Centinaia di migliaia di zlotych in ogni tasca dei suoi jeans. In una sola tasca c’era l’equivalente dello stipendio medio di un operaio specializzato, 2500 zlotych.
La sera tornava con un mucchio di soldi che a volte lasciava sul tavolo o cadere sul pavimento. Nessuna famiglia si sognava tanto denaro. Mio padre era un re. Era uno del clan. Era protetto dai fratelli. Erano potenti. Tutti. Non si inchinavano ai pezzenti. Per le cene di famiglia si andava nei ristoranti. E nella Polonia di quegli anni non lo faceva nessuno. Non esistevano i ricchi.
Tranne noi.
Sono stanco, vado a dormire, riprendo domani.
(continua)
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